È fine marzo e sono a Lastra a Signa, Firenze, dove ho un appuntamento con “l’autore”. Lui è Diego Manzi, autore del libro “Scintille di Ordine Eterno”, che tratta di filosofia-cultura-religione indiana: tre termini legati tra loro, perché lì, in India, una cosa è impensabile senza l’altra. Parlare al telefono con lui mi ha resa curiosa, ma quando mi accoglie nella sua casa, mi mostra alcuni pezzi della sua collezione ed offre un tè speciale, all'indiana, in segno di benvenuto è fatta: sono conquistata. Sa già che sono lì per conto di Mandalaweb.info, su richiesta della responsabile, la dottoressa Annalisa Ippolito, e quindi iniziamo a chiacchierare. Una chiacchierata molto interessante, di cui fa parte questo excursus sugli Yantra. Scherzando sul fatto che sembra molto giovane, gli chiedo come Diego Manzi è arrivato al contatto con la cultura indiana, visto il suo bagaglio di conoscenze piuttosto notevole, in apparente contrasto con la sua età. Diego Manzi: ...com’è che io mi sono avvicinato al mondo indiano? Cristina Tadiello: Sì, e che cosa ti ha catturato? DM: In realtà c’è stata una risonanza proprio trasformativa. Fino a 23-24 anni ho letto e studiato soltanto testi di letteratura occidentale, poi sono arrivato a Shopenahuer e mi sono imbatto nelle Upanishad (testi sacri scritti in lingua sanscrita, risalenti al IX-IIIV sec. A.C. - ndr.), che per me sono state un vero incontro “sulla strada di Damasco”. Ho cominciato a studiarle e credo rappresentino un po’ la vetta mistica, il punto di partenza di tutta la filosofia indiana successiva. A molti bambini capita di avere la sensazione di essere parte di qualcosa di più grande, ma spesso, piano piano, questo si dimentica. La magia dell’India sta nell'avermi riportato lì. Ci sono due tipi di conoscenza in India: c’è una conoscenza inferiore, se vuoi anche scientifica, utile, poi c’è quella sacra, che trascende un po’ tutto, come insegna Shankaracharya (Adi Shankara, VII sec., ha dato inizio alla corrente dell’Advaita Vedanta – ndr.). La conoscenza ordinaria, se possibile, va capita, attraversata e superata, per arrivare a ciò su cui si fonda. Leggendo le Upanishad, per tornare alla domanda, per la prima volta ho sentito un fremito interiore, una risonanza, come se avessi attraversato una specie di confine, perché mai fino ad allora avevo sentito così forte che si può arrivare all'unione di soggetto conoscente, oggetto conosciuto e mezzo di conoscenza. CT: Un po’ mi faccio prendere dal suo entusiasmo - …e secondo la filosofia indiana è l’unico modo per conoscere realmente una cosa. DM: Sì, è l’unico modo di conoscere, e da lì ho iniziato il percorso di lavoro, non soltanto sui testi e sullo studio della letteratura sanscrita, ma anche su me stesso. CT: Cosa può dare a noi l’induismo oggi? DM: Io credo che l’induismo, se vogliamo “gli” Yoga oggi possano, te lo dico in maniera molto semplice, aiutare gli occidentali a diventare occidentali migliori. Ti parlo della mia esperienza personale, nata da viaggi in India e in Bhutan: il più grande gioiello che mi ha offerto l’India, quello che continua a condizionarmi positivamente e a farmi star bene, perché questa forse è la differenza, è la capacità di vedere l’Uno nel molteplice. C’è un passo del Rig –Veda (il primo del più importante ed antico corpo di testi sacri dell’India, intorno al 1200 A.C. – ndr.) che cita testualmente: “i Rishi, i saggi, chiamano in molti modi ciò che è Uno”. È una verità che è stata detta in molteplici forme, anche letterarie e credo che la madre di tutti i valori di tolleranza, non violenza ed altri, sia questa capacità sviluppata dal genio indiano di vedere l’Uno nel molteplice. Questa è la cosa che ha ribaltato la mia visione. CT: Siamo in puro Advaita… DM: Certo. L’indiano poi non guarda alle filosofie occidentali, perché a suo dire sono “senza un fine”, senza “Prayojana” (o “scopo ultimo della vita” – ndr), mentre il fine di tutte le filosofie dell’India è quello supremo, cioè il raggiungimento del Moksha (lett. ”salvezza”, “liberazione” – ndr), l’uscita dal ciclo di morte-rinascita. CT: Quindi possiamo anche dire che la filosofia indiana, al dì là di quello che spesso si è pensato, è una filosofia molto pratica e non solo di sogno e di idealismo senza aderenza alla realtà… DM: Questo è stato un po’ l’immaginario collettivo, fino a poco tempo fa. Di fatto sappiamo che gli indiani sono dei grandi matematici, sono dei grandi grammatici. CT: Persone con una mentalità pratica. DM: Fin troppo… diciamo che noi occidentali abbiamo associato il fine di tutte le filosofie dell’India alla mera spiritualità misticheggiante, ma di fatto l’indiano, anche quando teorizza una dottrina, lo fa con rigore tremendo. Quindi nel mio libro ho paragonato la filosofia indiana ad una specie di sfera: c’è un momento teorico in cui regna, per così dire, la Apara Vidya (sorta di “conoscenza materiale” – ndr), cioè la conoscenza secondaria, ma se questa filosofia vuole avere il crisma di “Filosofia Suprema”, o Para Vidya (“conoscenza spirituale” – ndr), deve fare un salto ulteriore, deve imboccare quella che viene considerata una nubhava, ossia, letteralmente, un’esperienza diretta: insomma deve trasformarsi in vita. Un passo bellissimo delle Upanishad dice: “…prendi l’arco della divina conoscenza, incocca la freccia dello Yoga e scocca verso il bersaglio più supremo…”, che evidentemente è il Brahaman (l’Uno da cui tutto procede, al di là e a di sopra di ogni manifestazione del divino nel mondo – ndr.). C’è allora un momento teorico che, parafrasando, è lo studio dei Veda, poi c’è un momento in cui tu questo studio dei Veda lo devi lasciar andare e lo devi “armare”, se vuoi, dello Yoga: Yoga inteso come mezzo attraverso il quale unirti con questo assoluto. CT: Ti interrompo un attimo. Se ho capito bene hai detto che: "la vera esperienza è diretta se vuoi il salto di qualità, ad un certo momento devi entrare nell’ottica dell’esperienza diretta lo Yoga rappresenta una delle strade da intraprendere per arrivare a questo: dunque è un “mezzo”. DM: certo... CT: E sempre parlando di mezzi, cioè di qualcosa che mi serve per andare verso qualcos'altro, uno dei “mezzi” per arrivare a questa esperienza diretta, chiamiamola del Divino, esperienza della Meditazione, intesa come entrare non solo concettualmente, ma direttamente nella percezione del TUTTO È UNO, sono gli Yantra. DM: Certo. CT: Mi racconti qualcosa di tuo, delle cose che hai potuto conoscere, vedere… Prima di tutto, perché magari non tutti lo sanno, che cos’è uno Yantra? DM: La parola Yantra è una parola complessa. Innanzi tutto possiamo isolare il suffisso TRA. Il suffisso sanscrito “tra” che significa strumento… quindi uno strumento che serve per qualcosa. YAN rimanda al “sostegno”, quindi è uno strumento volto a sostenere qualcosa. Evidentemente una meditazione molto profonda, quella su di una divinità. Ma facciamo un passo ulteriore: “YA” è un abbreviativo del dio della Morte, Yama. Quindi per certi versi lo Yantra è uno strumento volto a “gabellare”, o comunque a procrastinare, la morte e la caducità fisica. Non dimentichiamo che per il Tantra, e lo Yantra è lo strumento tantrico per eccellenza, è assolutamente importante raggiungere il fine supremo, ma anche il godere di benessere psicofisico in questa dimensione: e quindi più tardi arriva la morte, più tempo ho per stare bene. È una vera e propria tecnica di realizzazione, perciò la meditazione sugli Yantra è una cosa molto complessa da fare. Secondo la visione indiana, il Mondo, l‘Universo, è manifestato, conservato e riassorbito ciclicamente. Così una meditazione sugli Yantra, che può avere una durata molto variabile, è scansionabile secondo una certa ritualità sottostante a queste tre fasi: c’è una fase di manifestazione nello Yantra, c’è un momento di conservazione ed un momento di riassorbimento. Per riassorbimento si intende ovviamente il commiato dalla divinità, che nella manifestazione viene chiamato, diciamo ad incastonarsi nello Yantra stesso. Lo dico in altri termini cercando di essere più comprensibile: lo Yantra prima del momento in cui la divinità è chiamata a presiederlo è un foglio di carta, oppure una tavoletta di legno piuttosto che una lastra di alluminio, o d’oro o argento o cristallo di rocca. È un materiale grezzo, non divinizzato. Lo Yantra viene attivato attraverso una tecnica chiamata PRANA PRATISHTHA (cerimonia di “consacrazione” – ndr), che si realizza con l’utilizzo di una respirazione canalizzata nello Yantra, di determinate mudra e soprattutto l’utilizzo di Mantra, perché se lo Yantra è il corpo della divinità, il Mantra ne è l’anima. C’è un momento in cui mediti su questo Yantra attraverso delle tecniche che in India chiamano trataka, cioè di fissazione su quell'unico punto, che in questo caso può anche essere il Bindu (punto tra le sopracciglia o alla sommità del capo – ndr), senza battere le ciglia. L’idea sarebbe di trasferire questo diagramma sacro, questo microcosmo, dentro di te. A quel punto sei accarezzato dalla divinità che concede la sua presenza dentro di te per non so quanto tempo. Sto semplificando molto, ma la meditazione sullo Yantra è un vero e proprio rituale, che parte dalla pulizia fisica, rigorosissima, e poi utilizzo degli incensi, effettuare questa o quell'altra aspersione e via dicendo. Il tutto avviene in modo simile a quando si strofina un magnete ad una pietra e questa si magnetizza a sua volta. Poi questa attività la vediamo venire meno, perché di fatto la divinità non ci concede più la sua presenza e c’è questo momento di commiato in cui la divinità deve essere lasciata andare. Quindi quel foglio su cui avevi meditato torna ad essere un foglio di carta. CT: Un aspetto importante se noi andiamo a considerare il ”cugino prossimo” dello Yantra, cioè la sua trasformazione DM: Il Mandala CT: Ecco se noi guardiamo questo secondo, possiamo avere, per lo meno per come viene inteso oggi, quello tradizionale, che ha dei canoni ben precisi per essere realizzato come tale, e quello invece così detto “personale”, che appartiene un po’ all’utilizzo che se ne fa attualmente in molti campi, soprattutto sulla scia di Jung. Nello Yantra c’è qualcosa di similare? Cioè lo Yantra è prettamente ed unicamente a scopo di entrare in contatto con questo livello di ordine superiore o anche con un livello mio, interiore, anche se forse, a volte… DM: …c’è una coincidenza tra microcosmo e quella scintilla. CT: Quindi…c’è anche la possibilità di una sorta di Yantra personale, che costruisco su me stesso e sulla mia interiorità, su quello che, alla fine, oggi chiamiamo “inconscio”? DM: Di fatto noi siamo, come dire, costellati di Yantra. La fisiologia sottile ci parla di questo, cioè ci dice che noi siamo Vina Danda. La Vina (pr. Vigna) è uno strumento musicale. Il “danda” è il bastone, che qui si riferisce alla nostra colonna vertebrale, e più precisamente così è chiamato quel canale all’interno del quale si incastonano questi sette cerchi, sette ruote di energia sottile, più o meno vorticosamente ruotanti. Ecco Vina Danda nel senso che, se noi utilizziamo bene il nostro corpo, possiamo evidentemente sperimentare livelli di musicalità sempre più intensi. Non a caso ogni centro energetico è, come dire, suonato da un BIjia Mantra (“sillabe seme” o suoni originari – ndr) in particolare e da altri fonemi dell’alfabeto sanscrito, più o meno intensamente. Insomma sì, noi siamo uno Yantra, ma siamo a nostra volta formati, o per meglio dire in-formati, da tutti questi sette Yantra. CT: ... sono comunque degli Yantra che seguono uno schema ben preciso. Esiste per me la possibilità di disegnare un mio Yantra personale, un qualcosa che si crea nella mia mente? Perché alla fine lo Yantra rientra comunque a tutti gli effetti in un disegno di Geometria Sacra. DM: Questa è una domanda un pochino più complessa. Io non faccio mai costruire creativamente degli Yantra. CT: Ma è una contemplata o no come possibilità? DM: Queste cose io non le faccio, quando porto a meditare sugli Yantra, faccio riferimento al lignaggio all’interno del quale io ho imparato questa tecnica di realizzazione. Per quanto riguarda l’originalità, a volte mi sono spinto a far disegnare gli Yantra agli alunni: uno Yantra con all’interno diciamo i diagrammi associabili ai cinque elementi, quadrato la Terra, cerchio l’Etere, la mezza luna l’Acqua, e via dicendo, il triangolo il Fuoco, e via dicendo… Quindi sì, qualcosa puoi fare, però l’idea è, per esempio, che lo Yantra di Durga è quello, perché è come se fosse stato “intuito” da coloro che hanno fatto dei viaggi interiori ed hanno sperimentato stati di estensione coscienziali talmente ampi che hanno fatto il viaggio anche per noi, agevolandoci il compito. Discostarsi da quello, quindi combinare colori piuttosto che cambiare forme, etc. etc.., è visto come uno staccarsi dall’originale quanto meno sospetto, e tutto ciò che è genialmente discostante dalla strada già tracciata, ecco gli indiani non l’hanno mai visto di buon occhio. Tu pensa all'arte: l‘artista indiano, di fatto, è il depositario di qualcosa che lo precede e non appone, nove volte su dieci, la propria firma sotto. Insomma, ti direi su questa cosa personalmente nutro un po’ di dubbi, ma non vedo perché oggi, qua in occidente, uno non debba pensare gli Yantra come qualcosa di creativo. Personalmente non mi sono spinto oltre, ma “anything goes”, come direbbe uno tra i miei filosofi occidentali preferiti che è Paul Karl Feyerabend (-contro il metodo- ndr): tutto può andare bene, se magari è finalizzato a far star meglio gli occidentali. Io non mi addentro, perché forse sono fin troppo rispettoso e umile nei confronti di un qualche cosa che mi precede CT: Diciamo che forse noi occidentali abbiamo voluto uscire da una fissità di regole a tutti i costi: la vera rivoluzione a questo punto sarebbe il tornare a riscoprirle. DM: Si, certo…e qui quindi il mio libro “SOE”: Scintille di Ordine Eterno, dove “Ordine Eterno” non è nient’altro che la traduzione all’italiano di Sanatana Darma, “tradizione perenne”, o anche “giustizia” o “ordine eterno”, perché Induismo è una parola occidentale, ma dall'interno gli Hindu si considerano piuttosto i portavoce di un qualcosa che li precede. Per “eterno” intendono ciò che è anadi e ananta, cioè “senza inizio” e “senza fine”, come di fatto sono i testi radice, i Veda, che sono stati intuiti dai mistici veggenti, un po’ come Newton che scoprì la forza di gravità, non la inventò, perché esisteva prima di lui. E… - mia considerazione finale - sempre esisterà…per tutto il tempo della Terra… Qui finisce la nostra conversazione su ciò che riguarda gli Yantra. Rileggendo i miei appunti però, ritrovo gli spunti di una chiacchierata molto interessante, alla fine troppo lunga per essere letta tutta d’un fiato, ma, allo stesso tempo, troppo varia e preziosa per pensare di tagliarla, cestinando in parte un’esperienza che merita di essere raccontata. Poi chissà, magari quest’intervista è riuscita a creare un pizzico di curiosità. Magari qualcuno potrebbe avere la voglia di conoscere qualcos'altro del mondo della cultura indiana e di cosa questa può oggi regalare ad un occidentale. Sì, lo so, questo e' un portale che parla soprattutto di Mandala, ma nulla nasce dal niente e se è sbocciato ad un certo punto della storia questo “fiore” prezioso, e tuttora continua a fiorire, è perché ci sono lunghe ed antiche radici a nutrirlo. Ed ecco la soluzione di Re Salomone: dividere il tutto in differenti capitoli, ognuno da leggersi come la condivisione di un momento di una straordinaria esperienza di vita. Un piccolo regalo insomma, uno di quelli che Mandalaweb sa offrire. |
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